La pubblicazione del rapporto di Oxfam alla vigilia del meeting annuale del Forum Economico Mondiale di Davos, intitolato quest’anno “Bene Pubblico o Ricchezza Privata?”, stimola in molti paesi, Italia compresa, un ampio dibattito pubblico. Non mancano obiezioni alle nostre analisi. Riteniamo opportuno replicare qui ad alcune delle argomentazioni sollevate.
1. Riduzione della povertà estrema
In merito alle affermazioni, sollevate da alcuni commentatori, che Oxfam non riconosca (o persino neghi) i progressi nella lotta alla povertà estrema registrati a livello globale negli ultimi decenni *, Oxfam riconosce, nero su bianco, la drastica riduzione, avvenuta negli ultimi venticinque anni, delle persone che vivono in condizioni di estrema povertà monetaria, quelle che dispongono di un reddito giornaliero inferiore a 1.90 $ (PPA 2011). Nel rapporto abbiamo invece rilanciato l’allarme (si cfr. p. 39 del recente rapporto Piecing Together – The Poverty Puzzle della Banca Mondiale) sul recente rallentamento del tasso annuale di riduzione della povertà estrema. Consapevoli dell’importanza dell’obiettivo di sradicamento della povertà e dei progressi raggiunti in questo senso, il rapporto sottolinea il pericolo di non raggiungerlo se i più poveri continueranno a non godere in maniera più equa dei benefici della crescita entro il 2030 (così come enunciato dall’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite).
A proposito della misurazione della povertà estrema, riteniamo utile ricordare come la soglia di 1.90$ al giorno, pur avendo un’importante funzione di catalizzatore dell’azione politica, non costituisce una congrua stima del livello minimo di reddito necessario ad assicurare un livello accettabile di vita. Le storie che arrivano dalle periferie più disparate del mondo in cui operiamo potrebbero aiutare a capirlo: in Myanmar le lavoratrici delle filiere globali dell’abbigliamento guadagnano circa 4$ al giorno, più del doppio del livello di povertà estrema. Per vedersi corrisposta una tale retribuzione sono costrette a lavorare sei o sette giorni a settimana per 11 ore al giorno. Il loro reddito risulta insufficiente per la spesa alimentare e medica, e spesso le costringe ad indebitarsi. In India, le persone che vivono con appena 2$ al giorno mostrano un tasso di mortalità tre volte superiore alla media globale. Se 2$ non sono sufficienti per una nutrizione adeguata o per poter vivere più a lungo, è lecito chiedersi come un simile valore possa considerarsi rappresentativo di una condizione di non-povertà (estrema). Se n’è resa conto anche la Banca Mondiale, introducendo, su raccomandazione della Atkinson Commission on Poverty, ulteriori soglie, più vicine a quelle di povertà nazionale nei paesi a medio reddito.
Le linee di povertà estrema “suppletive” sono fissate a 3.20$ di reddito giornaliero pro capite per i paesi a reddito medio-basso e a 5.50$ per quelli a reddito medio-alto.
Nel 2015 (ultimo anno disponibile) circa un quarto della popolazione mondiale viveva sotto la prima soglia e 3,4 miliardi di persone non superavano la soglia di 5.50$ di reddito giornaliero.
2. Sulla concentrazione della ricchezza e gli “studenti di Harvard”
Alcuni commentatori contestano ad Oxfam di contribuire a presentare come ‘povero’ anche chi non dovrebbe essere trattato come soggetto economicamente vulnerabile. L’argomento usato è il seguente: la ricchezza netta – misura della condizione patrimoniale delle persone – ha una componente positiva (valore degli attivi mobiliari ed immobiliari) e una negativa (debiti). Un giovane studente di una prestigiosa università americana senza asset e indebitato per pagarsi gli studi risulta così più “povero” (in termini patrimoniali) di un contadino del Laos con patrimonio esiguo (ad esempio un piccolo appezzamento di terra). Eppure le prospettive di vita dello studente di Harvard sono decisamente migliori: troverà verosimilmente un lavoro ben retribuito, restituirà il debito, potrà accumulare ricchezza, ecc.
A questo proposito val la pena specificare che Oxfam, al pari di istituti di statistica e organizzazioni economiche e finanziarie internazionali, definisce la povertà monetaria attraverso il (basso) reddito a disposizione di un individuo o una famiglia in termini assoluti o relativi a un bacino demografico. L’attenzione che Oxfam rivolge alla distribuzione della ricchezza netta è legata all’importanza che la condizione patrimoniale riveste per la vita delle fasce più povere della popolazione di un paese. La ricchezza netta fornisce da una parte una misura della resilienza finanziaria (o mancanza della stessa) – ovvero della capacità di resistere a shock improvvisi come raccolti scarsi, spese mediche impreviste o perdita del lavoro, dall’altra è indicativa della capacità delle persone di investire nel futuro e nel miglioramento della qualità della propria vita. Per chi occupa le posizioni apicali della piramide distributiva, la ricchezza rappresenta al contempo una fonte innegabile di potere e influenza. Va da sé che la ricchezza movimentata ed investita può generare reddito e che il reddito permette di accumulare ricchezza. Dunque gli squilibri nella distribuzione della ricchezza possono comportare (sul come e sul quanto il dibattito economico è apertissimo) squilibri nella distribuzione dei redditi e viceversa.
Oxfam non demonizza la ricchezza in quanto tale. Accendiamo i riflettori sull’elevata concentrazione della ricchezza al vertice della piramide distributiva o sull’alta disuguaglianza dei redditi in molti Paesi, perché riteniamo che si debba discutere pubblicamente delle ragioni sottostanti alle distanze economiche tra gli individui di una società e valutare l’accettabilità sotto il profilo di eticità ed efficienza dei meccanismi che le causano. Quanto i divari economici generati sui mercati sono riconducibili a merito, talento, innovazione, propensione al rischio? Quanto peso hanno invece le rendite economiche (monopoli ed oligopoli), il clientelarismo, il condizionamento politico e le rendite di posizione sociale e ereditarie? Quanto le disuguaglianze moderne siano spiegabili da un modello (sempre più aggressivo) d’impresa shareholders-first che penalizza ed esclude un’ampia platea di stakeholder dai benefici realizzati con sforzi collettivi? Qual è il peso, nel mondo globalizzato, delle asimmetrie di potere tra diversi fattori produttivi e quello della crescente finanziarizzazione dell’economia, ma anche della digitalizzazione e dell’automazione del lavoro? Quale impatto sulle disuguaglianze hanno le politiche pubbliche, in ambito fiscale, sociale, del lavoro, della concorrenza?
I dati aggregati sulla concentrazione della ricchezza a metà 2018 ci offrono un panorama sconcertante: il 10% dei titolari di patrimoni più elevati detiene quasi l’85% del net wealth stock globale. L’1% più ricco (tra cui figurano oltre due milioni e mezzo di nostri connazionali con patrimoni netti superiori a 722.000 euro) è titolare di quasi la metà della ricchezza netta aggregata e ha beneficiato, in termini reali, di quasi il 46% dell’incremento di ricchezza nel periodo intercorso tra giugno 2017 e giugno 2018. Chi fa parte del top-1% globale? Per il 73% si tratta di cittadini residenti in Europa e Nord America. Per fare parte della metà più povera (in termini patrimoniali) del pianeta, basta oggi disporre di una ricchezza che non supera i 3.490 euro. Questo gruppo, che possiede appena lo 0,4% della ricchezza netta del pianeta, è costituito per oltre due terzi da cittadini africani, latino americani, indiani e dei paesi a basso e medio-basso reddito dell’area Asia-Pacifico.
A livello aggregato il debito rappresentava a metà 2018, secondo le stime di Credit Suisse, il 13% della ricchezza netta. La sua dispersione tra i decili della popolazione globale non è tuttavia uniforme. Nel 2018 la quota di debito detenuta dal decile più povero del pianeta (tra cui gli indebitati netti come lo studente di Harvard) rappresentava ad esempio poco più del 3% del debito complessivo. Non è un’osservazione da poco: la maggior parte del debito figurava tra le componenti negative della ricchezza netta dei decili successivi!
Già due anni fa ci siamo soffermati con attenzione sul primo decile della distribuzione della ricchezza globale (gli indebitati netti), sottolineando come i fattori di rischio individuati dalla stessa Credit Suisse per trovarvisi fossero ben diversi dall’indebitamento universitario (fenomeno esistente ma marginale) o dai debiti finalizzati a investimenti produttivi in grado di garantire all’indebitato prospettive di una vita prospera. La categoria di ‘giovani, single e poco istruiti’ costituiva il profilo a rischio maggiore di povertà patrimoniale. Fattori secondari di rischio erano rappresentati dal ‘fare parte di un nucleo familiare con tre o più figli, dall’essere disoccupati o disabili’. ‘In molti paesi – si leggeva nel rapporto di Credit Suisse del 2016 – il maggior rischio è rappresentato per gli under-35, persone con pochi risparmi e all’inizio del ciclo di accumulazione della ricchezza, ovvero esposte all’indebitamento in un momento di crescita dei tassi di disoccupazione giovanile’ (con poche prospettive di una retribuzione medio-alta a breve termine). Nei paesi ricchi l’indebitamento interessa inoltre rappresentanti dei ceti più poveri (di reddito), costretti a ricorrere a prestiti per la sopravvivenza. Riproponiamo ai nostri lettori i dettagli della pregressa analisi.
3. Servizi equi anche nel privato, è possibile?
In terzo luogo, ci preme soffermarci su un argomento ricorrente nelle critiche sollevate al lavoro di Oxfam – quello secondo il quale l’accessibilità dei servizi educativi, sanitari, sociali, (il loro costo diretto o indiretto per i cittadini-utenti) non dipenda affatto dalla natura del gestore, pubblico o privato, che li eroga. Oxfam contesta, con dati ed evidenze provenienti da alcuni dei 90 paesi in cui opera, questa analisi. Il terzo capitolo del nostro rapporto si sofferma sulla limitata accessibilità alle cure garantita dal servizio sanitario privatizzato in India e sul fallimento dei programmi pubblico-privati di contrasto alla dispersione scolastica nel Punjab (Pakistan). Per citare solo alcuni degli esempi.
4. Sistemi fiscali progressivi – alcune precisazioni
Un ulteriore argomento su cui alcune critiche fanno leva è la contestazione della graduale riduzione di progressività dei sistemi fiscali in molti Paesi. Alcuni commentatori rilevano che, relativamente alla tassazione dei redditi delle persone fisiche, sebbene le aliquote massime d’imposta si siano drasticamente ridotte negli ultimi 35-40 anni, come evidenzia Oxfam, la quota di gettito fiscale ascrivibile all’1% in alcuni Paesi è cresciuta. Tuttavia proprio in questi paesi il reddito è oggi molto più concentrato tra i percettori di redditi più elevati. Un’aliquota nominale più bassa su uno stock di reddito significativamente incrementato può ancora produrre un gettito fiscale maggiore rispetto a quello generato dai percettori di redditi più bassi. Succede anche nei sistemi a progressività nulla e.g. ad aliquota unica (senza deduzioni e detrazioni): la quota di gettito dei high earners è più alta di quella dei redditi più bassi. Quanto? Anche tanto, se il reddito è particolarmente concentrato.
Sul fronte delle politiche fiscali la denuncia del rapporto di Oxfam è duplice. Oltre a riflettere sullo spostamento del carico fiscale da ricchezza e redditi da capitale a redditi da lavoro e consumi e sulla riduzione del grado di progressività dei sistemi impositivi, poniamo anche l’accento sulla dimensione insostenibile degli abusi fiscali nazionali ed internazionali che ogni anno privano gli erari pubblici di miliardi di euro indispensabili al rafforzamento dei sistemi di welfare, investimenti pubblici in ricerca, il finanziamento di politiche di lotta alla povertà o politiche attive del lavoro. Accendendo i riflettori sui paradisi fiscali societari – l’estrema rappresentazione della forsennata corsa globale al ribasso in materia di fiscalità d’impresa – e sulle giurisdizioni fiscali segrete che consentono rispettivamente a grandi imprese multinazionali e individui facoltosi di “ottimizzare”, legalmente e illecitamente, il proprio carico fiscale, abbassando consistentemente le proprie aliquote contributive effettive.
* […] non è vero che la povertà sia in continua crescita. Anzi, la sua costante riduzione è forse il più importante fenomeno sociale degli ultimi decenni, e lo dobbiamo all’odiata globalizzazione e agli odiatissimi mercati. E’ curioso che a Oxfam sia sfuggito il primo grafico di uno studio della Banca mondiale, pure citato: le persone che vivono in condizioni di povertà estrema nel mondo sono letteralmente crollate da 1,9 miliardi nel 1990 (il 35,9 per cento) a 736 milioni nel 2015 (il 10 per cento). Ci vuole una bella faccia tosta a negare questi immensi progressi […] (Stagnaro, il Foglio, 23 gennaio 2019)