A commento delle conclusioni del summit di Venezia dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali del G20, Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia sui dossier di giustizia economica, ha dichiarato:
“L’accordo-quadro sulle nuove regole di tassazione delle multinazionali, raggiunto all’OCSE pochi giorni fa e avallato oggi politicamente dal G20 Finanze, manca di ambizione. Per quanto i principi ispiratori delle riforme siano nel complesso condivisibili e sono stati intrapresi piccoli passi nella giusta direzione, la portata delle misure è deludente e gli impatti redistributivi, soprattutto per i paesi più poveri, appaiono particolarmente modesti. I nodi negoziali ancora in sospeso verranno sciolti entro il summit dei leader del G20 in programma ad ottobre. E’ cruciale correggere la rotta, garantendo la redistribuzione alle giurisdizioni di mercato di una maggiore quota di profitti a bilancio delle multinazionali nei paesi di residenza, ammorbidendo le condizionalità senza minacciare ritorsioni, e convergendo su un livello di aliquota della tassazione minima effettiva nel range 21%-25%. Misura che anche in Italia consentirebbe di aumentare considerevolmente l’extra-gettito annuo, passando dai 2,3 miliardi di euro stimati con un’aliquota al 15%, fino a 7-11 miliardi con le due aliquote più elevate”.
SCHEDA DI APPROFONDIMENTO – LA RIFORMA DEL SISTEMA DI TASSAZIONE INTERNAZIONALE D’IMPRESA
Di seguito le maggiori criticità evidenziate da Oxfam sull’accordo-quadro raggiunto in seno al BEPS Inclusive Framework dell’OCSE il 1 luglio scorso ed oggi avallato dal G20 Finanze.
Pilastro 1 – L’allocazione di nuovi diritti fiscali alle giurisdizioni-mercato delle multinazionali più grandi e redditizie.
- Lo status quo negoziale prevede che le nuove regole fiscali vengano applicate ad appena 78-100 multinazionali più grandi e redditizie. Gli utili soggetti a riallocazione – nell’ipotesi più restrittiva del 20% di utili eccedenti il margine del 10% – sono stimati intorno a 87 miliardi di dollari, appena il 3% del profitto complessivo a bilancio delle compagnie Fortune Global 500. Un ammontare che potrebbe raddoppiare se le nuove regole si applicassero anche al settore finanziario, attualmente escluso, e lievitare ulteriormente se si abbassassero le soglie di ricavi e profittabilità globali per multinazionali in scope e si redistribuisse una percentuale più marcata (almeno il 35%) degli utili in eccesso.
- L’allocazione di nuovi diritti fiscali alle giurisdizioni di mercato avviene a condizione che vengano soppresse (cessione di diritti fiscali esistenti) tutte le imposte sui servizi digitali (tra cui la web-tax italiana), nonché ogni altra misura con cui alcuni paesi hanno finora cercato unilateralmente di intercettare fiscalmente i proventi dell’attività economica “immateriale” delle multinazionali nei loro mercati. Una condizione che potrebbe causare ammanchi erariali netti e che ha verosimilmente inciso sulla decisione del Kenya (dotata di una web tax dal gettito non trascurabile) di non aderire finora all’accordo OCSE. Una recente simulazione di Tax Watch ha rilevato inoltre come le nuove regole, con la contestuale rimozione della web tax applicata in UK, permetterebbero a Google, Ebay, Amazon (ad oggi esclusa dall’ambito applicativo della riforma) e Facebook di versare meno imposte nel Regno Unito di quante ne corrispondano oggi. I paesi firmatari dell’accordo sarebbero inoltre obbligati a non introdurre analoghe misure in futuro.
- Ai paesi che sottoscrivono le regole previste dal primo pilastro è richiesto di confermare, in modo vincolante, l’adesione a meccanismi di prevenzione di dispute tramite arbitrati internazionali. Condizionalità ritenuta eccessivamente forte, anche con deroghe, da molti paesi più poveri.
Pilastro 2 – La tassazione minima effettiva
- Se l’aliquota minima non venisse incrementata, si rischierebbe di veder trasformata l’attuale corsa al ribasso in materia di fisco societario (che ha visto l’aliquota legale media sui redditi della società – l’IRES italiana – nell’area OCSE decrescere di 9 p.p nel periodo 2000-2020) in una corsa verso il nuovo minimo. Già all’indomani dell’annuncio del G7 non sono mancati i “primi suggerimenti” per un abbassamento delle aliquote legali dell’imposta sui redditi delle società fino al 15%, in paesi come la Danimarca o l’Australia. Sarebbe invece auspicabile un’aliquota minima tra il 21% e il 25%, in linea con il livello di tassazione effettiva media dei redditi d’impresa nell’area OCSE. Il 21% rappresenta tra l’altro l’aliquota a cui l’amministrazione Biden dichiara di voler portare, a prescindere dai risvolti negoziali, il proprio regime di tassazione minima per contribuire in modo più robusto al finanziamento dell’ambizioso piano di rilancio economico post-COVID. Un simile orientamento al rialzo è stato espresso anche dall’Argentina. Il Forum delle Amministrazioni Fiscali Africane (ATAF) ne chiede un incremento ad almeno il 20%. In termini di extra-gettito, di cui beneficerebbero in maggior misura i paesi di residenza delle grandi multinazionali, la scelta conservativa del 15% dovrebbe far riflettere il Governo italiano. Secondo le stime del neonato European Tax Observatory, diretto da Gabriel Zucman, l’aliquota minima effettiva del 15% porterebbe nelle casse dello Stato italiano introiti annui extra per 2,7 miliardi di euro. I corrispondenti valori con aliquote del 21% e del 25% salirebbero, rispettivamente, a 7,6 e oltre 11 miliardi di euro.
- L’aliquota del 15% non rappresenta il livello di tassazione minima effettiva cui le multinazionali verrebbero di fatto assoggettate, grazie a una generosa serie di deduzioni, che riducono considerevolmente la base imponibile assoggettata a tassazione minima.