16 Ottobre 2024

Un anno di paura: la testimonianza di una madre a Gaza

 

La voce di Hiba

Esattamente un anno fa, mi sono svegliata alle sei del mattino, come al solito, per preparare gli zaini e la colazione ai miei figli prima di mandarli a scuola. La scuola non era lontana, ci divideva solo una strada. Mentre mettevo i libri negli zaini, all’improvviso tutto è cambiato. Un forte boato ha risuonato nell’aria, e i bambini si sono radunati intorno alla televisione invece di litigare per chi dovesse andare al bagno per primo.

In quel momento, sembrava che il tempo si fosse fermato. Siamo stati costretti a correre, prima di diventare noi stessi un’altra ‘’statistica nei notiziari’’. Ho guardato mio marito, i miei figli e la mia piccola Alma, affettuosamente chiamata “Mimi”, che non aveva ancora compiuto un anno. Era la prima volta che sentiva il rumore delle esplosioni intorno a lei. Il suo corpicino reagiva a ogni rumore; pur non conoscendo il significato della “paura”, era visibilmente spaventata e allarmata. Percepiva il terrore con tutti i suoi sensi.

Abbiamo svuotato gli zaini dai libri, infilandovi due cambi di vestiti per ciascun bambino. “Non preoccupatevi, bambini, andremo a casa della nonna a Khan Younis come sempre. Torneremo a casa fra due settimane; questa non è la nostra prima esperienza di guerra.

Ogni volta, la casa dei miei genitori ha rappresentato un rifugio sicuro per i miei bambini. Mio marito è rimasto a casa per non lasciarla incustodita. “Non preoccupatevi, se la guerra prosegue, non durerà più di un mese o due al massimo”, ho cercato di rassicurarli. Ho voluto far sembrare la situazione come una piccola gita per loro: la casa della nonna, senza scuola e senza compiti, con l’opportunità di rivedere i cugini. Sembrava che fosse divertente, e ho desiderato poter tornare bambina anch’io, per non dover affrontare l’ansia e la paura, ma per pensare solo ai giochi, a dormire a casa della nonna con un cuscino al profumo di rose e sperando di ricevere qualcosa di buono da mangiare dalle sue mani.

Ma quella settimana si è trasformata in un inferno inaspettato. Siamo abituati a guerre brevi, che finiscono con conseguenze relativamente contenute, e che colpiscono in particolare Salah al-Din Road, un “passaggio sicuro” dove avvengono le peggiori violazioni fisiche e psicologiche.

Al primo sfollamento si sono susseguiti ulteriori sfollamenti, e mio marito si trovava da solo al Nord. Non avevamo notizie, a causa della scarsa comunicazione e delle interruzioni di rete. Ero schiacciata dagli incubi: io e i miei cinque figli eravamo soli nella casa della mia famiglia. Mio marito soffriva di malnutrizione a causa dell’assedio e dei bombardamenti, e non avevo altra scelta che pensare al peggio.

Volevo dire a mio marito: “La nostra piccola Mimi, il sogno che è nato prima della guerra, sta crescendo! Ogni volta che il suo corpo si contrae dalla paura, esiste tra la possibilità di sopravvivere e quella di morire. Piango quando nostra figlia inizia a toccare e riconoscere le cose: mi accarezza i capelli e il viso, e mi infila le sue piccole dita negli occhi e nel naso! Sto ancora aspettando quel momento in cui conoscerà la tua barba ruvida, mio caro.

La vita era ingiusta, e mi sono sentita la peggiore delle madri per aver dato alla luce una bambina che ha più probabilità di morire che di vivere. Quanto ero egoista ad aver desiderato una figlia senza pensare a cosa le sarebbe potuto accadere.

Illustrazione di Billy Ruffian
Illustrazione di Billy Ruffian

La guerra non riguarda solo aerei e carri armati, fame e morte che ci perseguitano; si estende all’idea stessa della nostra esistenza in questo piccolo angolo di mondo e ai nostri modi di vivere.

Una nuova mappa. Mentre cercavamo di orientarci in direzioni sconosciute, tende di sfollati come me riempivano le strade. L’esercito di occupazione aveva inviato una mappa di evacuazione verso Khan Younis, e la domanda era: dove saremmo andati? La casa della nonna, che un tempo accoglieva me e i miei figli, era diventata una zona rossa.

All’inizio ci siamo rifiutati di andarcene, perché non c’era un posto sicuro. Ma il pericolo era incombente. Sentivamo il rumore dei proiettili intorno a noi e contavamo i nostri ultimi respiri insieme. Ho visto che Yazan aveva bisogno di suo padre, e in quel momento ha deciso di fare da padre ai suoi fratellini. Yazan, che amava giocare a calcio e negoziare con me quante volte a settimana poteva andare al club con gli amici, ha iniziato a interessarsi alle notizie e alla radio. Si è precipitato a raccogliere le sacche contenenti le nostre cose per fuggire, senza dimenticare quelle della nostra piccola Mimi.

Ci siamo diretti verso una zona che le forze di occupazione sostenevano fosse sicura: Mawasi. Non appena abbiamo poggiato le sacche a terra, abbiamo cominciato a cercare un luogo sicuro dove vivere, o almeno dove dormire. Abbiamo cercato un affitto adatto. “Abbiamo abbastanza soldi? Quanti mesi coprirà? Quando finirà la guerra? E per una tenda? Quanto costa? E dove la metteremo?

Non so come i miei piccoli siano diventati adulti all’improvviso. Cercano acqua, cibo e legna da ardere per cucinare. Nel tempo libero, costruiscono aeroplanini di carta da vendere ad altri bambini. Iniziano piccoli progetti con grandi sogni, come costruire una nuova casa per sostituire quella distrutta o comprare un sacco di giocattoli per rimpiazzare quelli persi a casa. E naturalmente, mettono da parte i soldi per tornare a Gaza City e dormire tra le braccia del padre.

Un anno di paura, ansia e un destino sconosciuto, lontano da mio marito, con la nostra bambina che cresce e i sogni dei miei figli di giocare a calcio dopo aver preso ottimi voti a scuola. Un anno di perdite, durante il quale non abbiamo avuto altra scelta che attendere. L’unica verità che abbiamo compreso dopo tutto questo tempo è che non esiste un posto sicuro se non la propria casa, da cui siamo stati sfollati. Abbiamo assistito al bombardamento di tende nella zona di Mawasi a Khan Younis, considerata un’area sicura.

Quante volte la morte ci ha sfiorato eppure siamo sopravvissuti! Abbiamo trovato la forza di resistere nell’idea di tornare a casa, di ricominciare le nostre vite senza il ronzio dei droni e degli elicotteri, senza bombardamenti e il fragore dell’artiglieria.

Quante volte mi sono sentita spaventata e ansiosa, incerta su come agire o prendere decisioni importanti senza mio marito. E quanti bambini, pur essendo ancora così piccoli, sono stati costretti a crescere in fretta.

Hiba Alshourbaji – Protection Field Officer di Oxfam a Gaza

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